Perché non si insegnano (o si insegnano troppo poco) Storia e Cultura Sarda?
Mi capita spesso di leggere, anche adesso, osservazioni critiche o lamentele sul fatto che in Sardegna non si studi Storia sarda.
Continuo a stupirmi, visto che ai numerosi convegni ai quali ho partecipato in passato tutti ma proprio tutti dicevano che la Storia regionale non poteva non essere insegnata.
Giuseppe Serri amava dire che il suo apprendimento è un diritto dello studente.
Verso la fine della carriera ho avuto la ventura di vedermi presentare davanti, a inizio d’anno, a breve distanza l’una dall’altra, due, forse tre delegazioni di studenti che, a volte senza neanche avermi prima conosciuto come professore, mi rivolgevano obiezioni contro l’insegnamento della Storia sarda. Sorprendentemente usando tutti quasi le stesse parole.
Sinceramente mi venne da pensare che non fosse del tutto farina del loro sacco l’argomentazione che all’esame di maturità, peraltro tutt’altro che imminente, la Storia sarda non sarebbe stata materia d’esame e che quindi il suo studio avrebbe comportato in pratica solo una sostanziale perdita di tempo.
La cosa era un po’ sorprendente perché in passato i ragazzi avevano mostrato al riguardo un ragionevole interesse che era poi andato crescendo per il triennio rivoluzionario sardo e l’Angioy, per la Sardegna nel Risorgimento, Lussu, l’Autonomia regionale, etc. Erano venuti con me più volte a Bono e Burgos, al Consiglio regionale della Sardegna, all’Archivio di Stato.
Cosa assolutamente sorprendente era che fossero preoccupati per la breve porzione di tempo che in un esame di Stato viene dedicata a una singola disciplina.
Presi atto che le cose stavano cambiando e che la mia convinzione, ormai non lontano dalla pensione, di essere un venerando decano oggetto di rispetto e di considerazione, in procinto di ricevere stilografiche in dono- nonostante (ma anche per) il suo carattere non sempre accomodante- era del tutto destituita di fondamento.
Con una classe, pazientemente, mi misi alla LED (che quel giorno funzionava) e spiegai che 1) all’esame di Stato lo studente viene interrogato (il termine è improprio) sulla base di un programma e di una relazione disciplinare stilati e firmati dal suo docente e non su altro, 2) esiste una Legge regionale (la n° 26 del ’97, se la memoria non mi tradisce anch’essa) e che quindi loro dovevano semmai preoccuparsi se nelle altre discipline non venisse mai fatto alcun riferimento di nessun tipo alla Sardegna. Come si dovrebbe, peraltro. Esempi? Flora e fauna dell’Isola. Santi regionali. Letteratura regionale. etc.
Ora, a lamentarci che certe cose non si facessero o non si facciano, erano e sono buoni tutti. Ad affrontare i propri pargoli e magari chiarire con decisione le cose, arrischiando il conflitto generazionale, un po’ meno. A intervenire nelle sedi deputate figuriamoci. Per quanto riguarda invece gli “intornisti” dell’insegnamento della storia e cultura sarda, essi continuano a lamentarsi e a dimorare in ciò, come è nella loro natura.
— Postfazione
Un po’ di tempo dopo il pronunciamento di una di queste classi, mi ritrovai sotto le cure della mamma di uno dei ragazzi. Non era stato neanche il suo unico figlio a essere mio allievo. Rivelò francamente la sua identità. Mi parve sorpresa della mia naturalezza. Perché sapeva. Si prese cura di me con professionalità e simpatia. Un giorno si lamentò per qualche motivo, forse ero nervoso e non la stavo assecondando bene.
Le dissi “Così come io ho sopportato i suoi figli, lei adesso sopporterà me!”. Fece una risata sommessa e finì il suo lavoro.
Come dire, rara avis, una Signora.
Ettore Martinez