di Cesare Giombetti
Come abbiamo visto nelle scorse puntate di questo viaggio negli aspetti non sempre noti del Regno Unito (e luoghi affini, come Australia, Nuova Zelanda, ecc.), due fattori fondamentali emergono, ovvero il tendenziale conservatorismo e il classismo.
Il conservatorismo è di certo noto, almeno dal punto di vista estetico, e contribuisce a rendere il Regno Unito speciale, unico, ed è un elemento importante per attrarre il turismo. Confonde però il fatto che, proprio dal punto di vista dei costumi, questo paese sia noto proprio per l’innovazione. La svolta nei costumi (sociali, sessuali, estetici) dagli anni ’60 in poi ha visto proprio nel Regno Unito un faro.
Questo progressismo dei costumi però convive col conservatorismo strutturale dei meccanismi della società, che sono debolmente messi in discussione. E questo si lega al tema del classismo. Pochi infatti mettono in discussione il sistema a classi quasi non superabili, quasi a caste. Per capire meglio, l’ascensore sociale è qui molto più accessibile in teoria rispetto ad altri paesi o rispetto all’Italia, per vari motivi e nonostante, per esempio, i costi altissimi degli studi universitari.
È più facile dunque fare carriera o laurearsi se si viene da una classe sociale non ricca.
Nonostante ciò, di norma, i White British non approfittano di queste opportunità e tendono molto di più a seguire un destino uguale a quello dei genitori. I medici sono dunque figli di medici e gli operai sono figli degli operai. È un automatico conservatorismo, un’autorelegazione nelle caste di partenza. perché invece i British non white o i non-British approfittano di queste opportunità e infatti oggi vediamo vari British di origine indo-pachistana di terza o quarta generazione laurearsi, magari con un solo genitore che lavora come tassista, o abbiamo imprenditori cresciuti nella working class e oggi a capo delle aziende private più importanti del paese, o ancora, recentemente, il primo Primo Ministro della storia di origine indiana.
Come abbiamo visto negli scorsi articoli, questo sistema genera quartieri di classe, supermercati di classe, scuole di classe, confessioni religiose di classe ecc., fino a vere e proprie situazioni di apartheid di classe, come quella famosa (ma che è solo la punta di un iceberg) dell’Irlanda del nord.
Un’altra cosa tipicamente divisa per classe è lo sport, e il fenomeno è legato alle scuole e alle aree di appartenenza. Perché, per esempio, il rugby (union, il rugby a 15 giocatori, quello più famoso insomma) si insegna nelle scuole private o comunque di un certo livello, e il calcio è invece da quasi subito uno sport popolare. Nacque anche il calcio come sport delle scuole d’élite, ma presto fu riformato, non senza tormento, proprio perché andava a rompere uno schema rigido. Questa storia è ben raccontata nel telefilm “The English game” ( https://www.netflix.com/gb/ title/80244928 ).
Il rugby invece rimase uno sport di classe alta, difficilmente giocabile dai più poveri, perché, per poter resistere a certe situazioni di gioco, serviva tanta massa, e tanto cibo e tempo per allenarsi. Tranquillità economica dunque.
Questa peculiarità ha portato all’invenzione, nel 1895, del rugby league, il rugby a tredici giocatori, con meno contatto, più veloce (più vicino al calcio da cui il rugby deriva), e più accessibile quindi alle persone provenienti dalle classi o dalle aree più povere.
Il rugby league è infatti sviluppato soprattutto nel nord dell’Inghilterra, tradizionalmente la parte più povera e più working class, rispetto al ricco sud, dove invece impera il rugby union.
Il sistema a classi è dunque così rigido da aver favorito la nascita di una variante di classe di uno sport. Anche questa è una peculiarità britannica.