Di Claudia Aru
Passati i bagordi, con un po’ di raffreddore e mal di testa, voglio condividere con voi una riflessione che mi tormenta da un po’: il carnevale sardo fa parte del bagaglio culturale di un popolo antico che affonda le sue radici nel paganesimo.
Il Cristianesimo ha cercato in tutti i modi di cancellarlo e ci è parzialmente riuscito nelle aree costiere, in altri contesti si è arreso inserendo a forza figure di santi che non avevano nessun senso ma servivano tenere l’autorità dell’istituzione. Non ci sono riuscite neanche le colonizzazioni che si sono alternate nei secoli e che, alla fine, si sono integrate e lo hanno alimentato (come nel caso della Sartiglia di origine spagnola).
Ma cosa è che minaccia davvero la tradizione millenaria del carnevale sardo oggi? È presto detto: il turismo di massa e l’ossessione verso un modello di sviluppo totalmente sbagliato. Andiamo con ordine.
Il rito del carnevale si rifà ai riti dionisiaci votati a propiziare le coltivazioni. Il tempo in cui avvenivano era la fine dell’inverno che cede il passo alla rinascita, alla primavera. Tra i riti più comuni, vi è quello dell’uomo che addomestica l’animale, un contesto, quindi, prettamente agro pastorale. Partendo da questo presupposto, quanto può essere dannoso continuare questa messinscena senza senso chiamata “carnevale estivo?”
Perché si fa? Per avvicinare i turisti in costume da bagno alle tradizioni della nostra terra? No. Lo si fa per un pugno di monete.
Non li si fa spostare neanche dalla spiaggia, adesso le maschere con pelli di pecora e nero di fuliggine in viso, arrivano a passeggiare sulla battigia ad impressionare, come al circo davanti alle scimmie, orde di turisti che delle nostre tradizioni, di chi siamo, della nostra cultura, onestamente, non gliene può fregare di meno. Si preferisce snaturare un rito antico e apotropaico svendendo chi siamo e chi siamo sempre stati. La mia domanda è semplice: che senso ha tutto questo? Che beneficio porta? Azzardo una risposta: nessuno.
La colpa, però, non è del turista, è di un modello politico totalmente sbagliato che ha, addirittura, promosso uno spot internazionale che mette un Mamuthone sott’acqua scatenando l’ilarità del web. E se è vero che sulle prime anche io ho riso, la verità è che ci sarebbe da piangere. Un modello alternativo che parta dal rispetto, dalla cultura, dalla spiritualità, è possibile. Sta a noi sardi, tutti insieme, decidere da che parte stare. I mamuthones, i Boes, i Thurpos, Mamutzones, la Sartiglia, se li vuoi vedere, vieni quando è giusto che sia, non in una spiaggia ad agosto.
Non si chiama business, si chiama dignità. E ora ditemi che mi espongo troppo e rompo sempre le scatole, tanto, lo faccio lo stesso.
2 commenti
Concordo con la Aru. Alcuni anni fa a Mamojada restai esterrefatto vedendo una signora che chiedeva un selfie a un mamuthone. Vorrei però allargare il discorso anche ai siti archeologici, ferocemente dissacrati da un’eccessiva pressione antropica. Di più: le nostre spiagge e la nostra natura sono sotto attacco pressante: personalmente vado al mare in Primavera, anche perché certe spiagge sono diventate impraticabili e anche care. Da quanto ho capito si sta pensando di trasformare tutta l’Isola in un b&b con l’idea di coinvolgerne capillarmente tutto il territorio. Dobbiamo ringraziare le servitù militari, altro che. Il fatto si è che non esistono molte altre idee di sviluppo economico, in mancanza del quale la gente, dovendo pagarsi le bollette e quant’altro, non può che restare sorda ai richiami culturali. Servirebbe allora una classe dirigente con un’idea di sviluppo sostenibile. Grazie a Claudia Aru per avere sollevato il problema. Anzi il Problema.
Peccato che la redattrice di questo post, che tanto critica lo svendersi della tradizione e a gran voce ne rivendica la dignità, qualche anno fa non abbia esitato a vestirsi da Boe a Ottana, farsi ritrarre con la birra in mano, pubblicare su social e rompere la tradizione a lei tanto cara in cui le donne, nel carnevale tradizionale sardo, non si mascherano.