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Andy Warhol, storia di un’idea coerente

di Mario Mazzoleni, Art Advisor e critico d’arte

Ab occasu solis

Non ancora sessantenne, il 22 febbraio del 1987  non superò quella che doveva sembrare un’ordinaria operazione chirurgica alla cistifellea. Ancora oggi i rumors intorno alla scomparsa del padre della Pop art non si placano e sembrano, anzi, aver assunto i contorni di una non troppo celata polemica: la morte di Andy Warhol per qualcuno costituirebbe uno squallido episodio di malasanità, dettato da un atteggiamento superficiale nelle indagini cliniche preliminari intorno alle reali condizioni di salute del paziente e da una scarsa sorveglianza dello stesso nella fase postoperatoria. Vi sono, quindi, le dichiarazioni dei medici, secondo i quali l’intervento non fu mai ritenuto né semplice né scontato.

Questa, perlomeno, la versione del celebre professor Bjorn Thorbjarnarson (già chirurgo dello Scià di Persia) che acquisì i primi accertamenti sulle condizioni fisiche, già abbastanza compromesse, di Warhol e che intervenne, quindi, con urgenza sull’addome dell’artista, portando a termine un’operazione di per sé tecnicamente riuscita. Il chirurgo trovò la cistifellea di Warhol ormai in cancrena e sostanzialmente disintegrata all’atto della rimozione. L’insigne chirurgo sanò, dunque, la sindrome acuta di Warhol, confermando il successo della fase operatoria. Al risveglio Warhol aveva effettuato anche alcune telefonate. Un’infermiera lo andò a controllare alle quattro del mattino riferendo che il decorso postoperatorio procedeva in maniera regolare. Qualche tempo dopo, la stessa tornò in camera: Warhol era cianotico e non rispondeva. Ogni tentativo di rianimazione andò a vuoto: erano le 06:31. Secondo l’autopsia il decesso era avvenuto per fibrillazione ventricolare, causa principale di arresto cardiaco. Recentemente il Professor John Ryan, chirurgo in pensione e primario emerito al Virginia Hospital di Seattle, ha ricostruito la storia clinica dell’artista, scoprendo, quindi, che Warhol aveva sofferto di colecisti (come il padre) da almeno quindici anni. La paura degli ospedali aveva, tuttavia, determinato, in Warhol, una pericolosa trascuratezza nei riguardi del proprio problema e, quindi, una progressiva complicazione della patologia di cui era sofferente e che nell’ultimo suo mese di vita lo aveva costretto, per i forti dolori, a una inevitabile “resa dei conti”. “Al momento dell’intervento chirurgico Wharol appariva disidratato e denutrito e le ridotte possibilità di complicazioni, per questo tipo di operazione, si erano, purtroppo, associate alla risicata statistica del 4% di soluzione esiziale. Negli ultimi quattro anni Warhol pare avesse assunto speed in maniera continua, soffrendo, quindi, ancora, per gli effetti del tentato omicidio subìto nel 1968 (quando Valerie Solanas gli sparò). All’epoca era stato dichiarato morto e malgrado nove organi danneggiati ebbe fortuna e, soprattutto, un chirurgo eccellente” (semicit. Blake Gopnik per il “New York Times”).

Ambula ab intra

Non vi è nulla di più conformemente anticonformistico della vita di Andy Warhol. La sua paura della morte, il trauma del ferimento, una progressiva tendenza agorafobica, una varia e sottile sintomatologia da Reader’s Digest, lo definiscono come moderno prototipo sociale (tuttavia – e proprio per questo motivo – un autentico hápax legómenon incarnato). Warhol assurge a mito del contemporaneo, poiché del contemporaneo riassume, superandoli, tutti gli “ismi” logico-deduttivi, formali e ideali.

Antonio Spadaro l’aveva già dichiarato nel 2007 (in quel momento la potenza artistica, mai tramontata, di Warhol “sonnecchiava” un poco prima delle nuove e numerose mostre di questi ultimi anni): forse Warhol ci ha ingannati o, forse, dell’artista non abbiamo colto un aspetto di capitale importanza. I suoi pontificati iconografici con i volti dei grandi personaggi della cinematografia, della politica e del costume non sono propriamente e solo atti di meccanica glorificazione del contingente. Non sono pure celebrazioni sgargianti del successo e della fama. Non si tratta, quindi, nemmeno di una banale operazione di marketing. Fors’anche, ma non solo. Pur non avendo, Warhol, mai negato la sua piena e trasparente appartenenza al contemporaneo consumista, con le sue strategie illusorie di compravendita e le usate liturgie della comunicazione di massa, cionondimeno le icone warholiane sono molto di più di questa semplificazione e assurgono a simboli finali di una riflessione che dalla ritrattistica di El Fayyum approda all’esistenzialista dasein di heideggeriana memoria.

Chi è, dunque, la Marilyn Monroe immortalata da Warhol? O, meglio, quale Marilyn è, fra le tante? Forse nei volti delle celebrità warholiane vi è lo sforzo ostinato di superamento del provvisorio, il tentativo di ingannare il tempo decompositore dell’organico. Il volto di Marilyn diviene eterno, congelato, nel suo astratto fermo immagine, negli ultimi istanti prima della morte. Vi è, in sé, in quello scatto fotografico replicato e pontificato anche grazie alla variata sacralità dei colori, un preciso e moderno formulario di esorcismo della consumazione. Si tratta, dunque, di un atto di preservazione della memoria contro la storia e le sue dannazioni, vero e ultimo nemico da sconfiggere. Warhol diviene, forse a sua insaputa, ministro consacrato dai poteri redentivi. La sua arte è soteriologica, salvifica.

Quel volto di Marilyn è figura di perfezione dal sapore escatologico. Warhol era, del resto, uomo di fede. Difficile, se non impossibile, ignorare il suo intimo credo quia absurdum. Ma l’esercizio del dubbio s’impone e ci obbliga a una domanda: fu una semplice paura della morte? Fu, la sua, un’arte inconsapevolmente sedotta e piagata da un’intima tanatofobia e, per questo motivo, celebrata con “monumenti funerari” aere perennius? Insomma, l’iconografia warholiana più tipica e tradizionalmente inoculata nel pubblico e nelle antologie, è un meditato e voluto richiamo alla morte – Memento mori – o è frutto di una nostra suggestione, di un’interpretazione, di una forzatura esegetica? Urge, a questo punto, fermarsi a debita distanza. Distanza di rispetto. Atto di deferente umiltà. Diremo, per non concludere, del sorriso di Marilyn, della vaghezza espressiva di Humphrey Bogart, della finzione di Mao: se la questione della fisiognomica inizia con Leonardo e approda a Bacon definendo, così, il canone interno dell’arte occidentale (illuminanti sono, a tal proposito, gli studi e le pubblicazioni di Flavio Caroli), non possiamo non osservare Warhol senza approdare – ripensando – alle sottili psicologie di un Lorenzo Lotto o di una Sofonisba Anguissola (giusto per produrre un paio di esempi).

I volti warholiani condensano l’essenza, per così dire, iperuranica, di coloro che furono quei volti. Non sono semplici identità facciali, le icone di Warhol. La fotografia avrebbe, in tal senso, assolto il suo facile e immediato compito segnaletico. La proposta di Warhol è, innanzitutto, ispettiva e introspettiva: la scelta è precisa, maniacale. “Esattezza” è il sostantivo adatto nel definire l’operazione effettuata da Warhol. I volti warholiani delle celebrità travalicano il concetto di sembianza per approdare a una individuale “storia esperta”. Può, dunque, essere, in buona sostanza, che dietro al dato visibile vi sia un’ombra, un livello iconologico immersivo celato, tuttavia, da una più invadente e pervasiva (ma forse solo apparente) sostanza commerciale.

In rebus

Al contempo, tuttavia, l’immagine di Marilyn pare smarrire il suo connotato di volto–segreto, il suo mistero “giocondo”, la sua verità iperuranica, per precipitare in una più banale e terrigena dimensione di “relitto mediocre e noioso”. L’immagine viene totalmente decontestualizzata da qualsivoglia specifica funzione (anche quella fotografica) per entrare nello spazio dei commenti privati e delle centinaia di migliaia di differenti opinioni.

La nuova immagine warholiana diviene volontà di altri e si trasforma in oggetto di consumo, come un comune barattolo di zuppa Campbell. L’utilitarismo del prodotto sottende, di più e meglio, l’idea del potere del quotidiano sopra di noi. Un potere dato, innanzitutto, da una nuova dimensione del tempo di osservazione: quanto tempo ha a disposizione, una copertina, per catturare l’attenzione dell’osservatore? Non più di cinque secondi, diceva il celebre illustratore statunitense Norman Rockwell. Una formazione e un’educazione, queste, imposte dal linguaggio pubblicitario sempre più raffinatamente capace di “bucare” riviste e schermi attraverso l’utilizzo attento della psicologia della massa. E Warhol lo sa bene. Ancora una volta, tuttavia, vi è la tentazione di oscillare tra l’ipotesi di una conservazione misterica del quotidiano e il vuoto dietro la cortina.

Si tratta di capire, in buona sostanza, se l’operazione seriale di Andy Warhol, depauperata dei canoni formali della tradizione prospettica, della profondità, del chiaroscuro, dell’umbratile, sia una sorta di novello cavallo di Troia ricolmo di segreti e di nuovi “tranelli” o se, al contrario, la questione non sia semplice materia ad usum Delphini. Questioni di lana caprina. Secondo l’opinione di Gianni Mercurio – e qui condivisa – l’operazione artistica di Warhol fu, innanzitutto, un atto pienamente consapevole e fecondo di risvolti fondativo-filosofici ancora senza convincente risposta. Parliamo, in particolare, del superamento del dibattito estetico di base in favore della riproducibilità dell’opera d’arte nel ventre capitalistico. E, ancora, se la questione Pop sia un “rumore sociografico” capace di far fibrillare più il mondo dell’arte che non l’arte in sé.

Per cui – torniamo a ribadirlo – non concluderemo pontificando verità warholiane che non possediamo, affermando, per esempio, che Warhol fu – banalmente ed eroicamente – uomo del suo tempo, genio indiscusso nella destrutturazione della forma e dell’immagine a vantaggio di una nuova forma e di una nuova immagine pienamente rispondenti a un “qui e ora” senza più bellezza e tradizione, poiché lontane e perdute. Andy Warhol porge la mano ai suoi simili, da naufrago a naufrago, affinché la transizione verso qualcosa di cui l’artista stesso non sa, sia un accompagnamento leggero e divertito, ma anche terribilmente necessario e salvifico. Warhol è un traghettatore dell’uomo contemporaneo verso approdi incerti e forse non ancora visibili all’orizzonte: veste i panni di quelli della sua specie e parla la loro lingua. Soffre dei loro stessi malanni e quasi li rivela, non senza atti di pudore e di intima discrezione. È un timido, del resto, Andy Warhol, è religioso nel senso più stretto del termine. Dinanzi all’opera di Andy Warhol possiamo trascorrere annoiati, divertiti o ipnotizzati, ma sempre con la sensazione che quest’uomo non ce l’abbia “raccontata tutta”. E non crediamo, allo stesso tempo, che il suo sia stato un atteggiamento snob troppo frettolosamente etichettabile dai lustrini e dalle occasioni mondane puntualmente paparazzate. Warhol probabilmente ha riso anche di se stesso, attraverso una parlata lenta e moderata e dietro a quel viso simile a un pezzo di legno spiaggiato da chissà quale oceano e poi disseccato fino all’essenza di gesti e di parole che non sono più nemmeno suoni, ma solo segni. 

 

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